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Altre opere

di Claudio Antonelli

in catalogo 

Claudio Antonelli

Pavese, Vittorini e gli americanisti
Il mito dell'America

ISBN 978-88-86428-62-0
Formato: 13 x 20
Pagine: 256

Prezzo: Euro 13,00

 

 

 

Scheda Editoriale

 

 

 

Claudio Antonelli

(in origine Antonaz) è originario di Pisino (Istria), dopo aver trascorso gli anni giovanili a Napoli, vive da tempo a Montréal (Québec, Canada).

Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi, è autore di svariati articoli, saggi, libri sulle comunità di espatriati, lo sradicamento, il multiculturalismo, i rapporti interetnici, il mosaico canadese, il mito dell’America, la fedeltà alle origini, l’identità... Bibliotecario, ricercatore universitario in possesso di diverse lauree ottenute in Italia e in Canada (legge, biblioteconomia, letteratura italiana) giornalista, scrittore, ma soprattutto spirito disinteressato e indipendente e con un’idea alta e nobile dell’italianità.

Claudio Antonelli ha ricevuto dal presidente della Repubblica il titolo di "Cavaliere dell’ordine della stella della solidarietà", per aver "svolto negli anni una costante azione di sostegno alla lingua e alla cultura italiana del Québec".

Nel 2007 ha pubblicato

"Espatrio, fedeltà, identità - Omaggio all’Istria e al Canada" (Edarc, 2007).


 

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Lunedì

8 febbraio 2010

 

nella Sala Maggiore di Palazzo Tonello, sede

dell’Unione degli Istriani

in via Silvio Pellico, 2 a Trieste, alle ore 16.30

 

UNIONE DEGLI ISTRIANI
LIBERA PROVINCIA DELL'ISTRIA IN ESILIO


Lunedì 8 febbraio 2010, nella Sala Maggiore di Palazzo Tonello, sede dell’Unione degli Istriani in via Silvio Pellico, 2 a Trieste, alle ore 16.30, avrà luogo la cerimonia di conferimento

del premio Histria Terra

al prof. CLAUDIO ANTONELLI

 

con la seguente motivazione
noto divulgatore della cultura e della storia
delle terre e delle genti d’Istria, per l’impegno costante ed indefesso profuso nel difendere la verità storica anche in terre lontane,

risiedendo egli stesso in Canada

 

 

Archivio storico

periodico telematico

 

lunedì

8 giugno 2009

Recensione del volume di Claudio Antonelli,

Pavese, Vittorini e gli americanisti.

Il mito dell'America

nella rubrica "Libri e riviste"

del periodico telematico

"Archivio storico"
 

"Leggere:tutti"
Mensile del libro e della lettura
numero 36
gennaio-
febbraio 2009

 
LA DESTRA.INFO

 

“Pavese, Vittorini e gli americanisti: il mito dell’America” di Claudio Antonelli (Bagno a Ripoli, Firenze: Edarc, 2008, 254 p.)
www.edarc.it
——————————————————————————
I critici, alla quasi unanimità, si ostinano a vedere nella passione americana, nel ventennio fascista, dei cosiddetti americanisti, con in testa Pavese e Vittorini, la prova di una fronda antiregime ossia di una militanza antifascista. Secondo tale interpretazione, che dal dopoguerra ad oggi va per la maggiore, i nostri americanisti cercarono nel Nuovo Mondo i valori della democrazia, dell’impegno sociale e dell’antifascismo.
Si è voluto ignorare che l’antiamericanismo non fu un atteggiamento costante nell’Italia fascista e che non sempre chi avversò gli Stati Uniti amò il fascismo, e viceversa. Il “sogno dell’America” è in realtà un mito articolato e sfaccettato, in cui i valori di democrazia – ai tempi del gangsterismo trionfante, dell’italofobia contro i nostri emigrati, e della segregazione dei negri – non erano i valori più evidenti. L’America appariva allora a molti come il mondo della modernità e dell’esotismo, sorta di schermo magico su cui proiettare « ad libitum », da lontano, i propri sogni di evasione e di avventura. Il sogno
americano di Vittorini e Pavese s’iscrive nel mito generale dell’America diffuso nel mondo intero; mito che il libro di Antonelli analizza nei vari aspetti.
Ma la radice letteraria del mito dell’America, in questi intellettuali-traduttori che non misero mai piede negli Stati Uniti, dà una coloritura particolare al loro sogno di fuga oltreoceano. Nessun critico ha però voluto approfondire e trarre le dovute conseguenze dalla genesi particolare della passione americana di questi americanisti-traduttori, che è, appunto, di natura soprattutto letteraria. Antonelli lo fa, constatando che i nostri americanisti ricercarono in America, sì, un’atmosfera di libertà, ma non in termini di libertà di sistema di governo, bensì di libertà creativa e di linguaggio.

La critica dominante, progressista e filomarxista, ha fatto ricorso ad una macchinosa interpretazione « antifascista » del filoamericanismo di Vittorini di Pavese e degli altri americanisti, intendendo loro tributare un prezioso omaggio. Il mito dell’America – secondo l’autore di “Pavese, Vittorini e gli americanisti: il mito dell’America” – è invece la cartina di tornasole che rivela il volto più vero di questi autori, sepolto sotto i belletti e le maschere di cui si è servita, per anni, una critica politicizzata ad oltranza per dare o negare, nel campo delle letteratura, titoli di merito artistico basandosi su giudizi di carattere soprattutto politico.

E tornando al sogno americano, constatiamo che il mito dell’America continua ancora oggi, nonostante l’elezione alla presidenza di Barack Obama, un afroamericano. Anzi, la nomina di Obama conferma un elemento primordiale del mito, che è l’idea – per riprendere le parole dell’autore del libro – di un « paese nuovo, terra della libertà, del movimento, della rigenerazione, della mescolanza di razze ».
 

   

il VELINO.it

28 novembre 2008

IL VELINO
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VIA DEL TRITONE, 169 - 00187 ROMA - TEL. 066977051 R.A. - FAX 066793559

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CLT - Il mito di Pavese e Vittorini nel libro di Claudio Antonelli
 
Firenze, 28 nov (Velino/Aise) - "Pavese, Vittorini e gli americanisti: il mito dell’America" è il titolo dell'ultimo libro di Claudio Antonelli, pubblicato quest'anno in Italia dalle edizioni Edarc (pp.254, euro 13). Claudio Anto...

Nel nuovo libro invece è il mito dell'America, attraverso i racconti di Pavese e Vittorini, due tra i più grandi scrittori italiani del secolo scorso, al centro della sua analisi. Un tema scelto, r...

"Con accenti straordinariamenti simili, dell'America" Vittorini e Pavese "esaltavano la potenza e la modernità, vedendola come un Paese che indicava l'inevitabile strada alle altre nazioni. Insomma...
 
(ais) 28 nov 2008 19:53
 
www.legnostorto.com

giovedì
20 novembre 2008

Intervista all'autore
- Come mai la scelta di questo tema?
Nel corso dei miei studi all'Università McGill di Montréal per l'ottenimento di un  dottorato di ricerca, il cosiddetto Ph.D, mi trovai ad esaminare il fenomeno del filoamericanismo in Elio Vittorini, essendo questi l'autore su cui  stavo redigendo la tesi.

E mi resi subito conto che la passione americana, durante il periodo fascista e nell’immediato dopoguerra, non fu appannaggio esclusivo di Vittorini ma si estendeva ad una cerchia di letterati. Volli allora  estendere la mia indagine anche a  Cesare Pavese e agli altri americanisti. E cercai di leggere tutto  quel che costoro avevano scritto sull'America. Occorre precisare che io da tempo mi stavo interessando al mito dell'America. Feci allora una scoperta sorprendente: tutto quanto la critica, alla quasi unanimità, ripeteva da anni in Italia circa il significato della passione per gli States nutrita da Vittorini, Pavese, Pivano, Pintor e dagli altri americanisti, non era per nulla corroborato dalle fonti da me esaminate; fonti che si basavano, in primo luogo, sugli scritti consacrati all’America di questi autori. Valga un esempio per tutti. La famosa antologia "Americana" di Vittorini, citata da tutti i critici, deve essere stata letta, in realtà, da ben pochi di loro, visto che la visione dell'America, in essa espressa, smentisce in pieno la tesi iperpolitica di segno antifascista del « sogno americano » che tutt’ora va per la maggiore. Per non parlare degli altri scritti di Vittorini in "Politecnico". Lo stesso dicasi per l'epistolario e il  diario di Pavese. Tutte queste fonti contraddicono in pieno l’interpretazione, prevalente ancora oggi in Italia e altrove, sul significato «antiregime » della passione americana di Pavese, Vittorini e degli altri «americanisti ».

-Ma qual è esattamente quest'interpretazione "politica" invalsa per tanti anni in Italia, che lei contesta?
La critica nella sua quasi totalità ha voluto fare di questo fenomeno di filoamericanismo letterario durante il ventennio fascista la prova inequivocabile di una militanza antifascista o per lo meno di una fronda antiregime. I critici affermano che i nostri americanisti cercarono nel Nuovo Mondo i valori della democrazia, dell'impegno sociale e dell'antifascismo, quando in realtà nei loro scritti – come ho già detto – non vi è alcuna traccia di questa ricerca di democrazia, di progressismo o d’antifascismo, a parte certe dichiarazioni fatte posteriormente,  nel dopoguerra, e sollecitate dal clima creatosi intorno al PCI, allora partito guida di molti intellettuali.
-Come sarebbero giunti i critici ad una tale interpretazione, che secondo lei è erronea?
Occorrerebbe leggere il mio libro per capire come si sia potuto manipolare e deformare l'ingrediente politico, pervenendo a fare del filoamericanismo di Pavese e di Vittorini una forma di antifascismo. Mi limiterò ad indicare  le omissioni e gli errori più marchiani, che sono i seguenti. Si è voluto ignorare che l'antiamericanismo non fu un atteggiamento costante nell'Italia fascista, e che non sempre chi avversò gli Stati Uniti amò il fascismo, e viceversa. Stranamente, i critici, nell'analisi della passione americana dei cosiddetti americanisti, hanno del tutto ignorato quel fenomeno ben più ampio, così diffuso tra le masse de mondo intero, che è il mito dell'America, questo paese nuovo, messianico, dai grandi spazi, crogiolo di razze, e promessa d'abbondanza e di successo. Il "sogno dell'America" è un mito articolato e sfaccettato, in cui i valori di democrazia, ai tempi del gangsterismo trionfante, dell'italofobia contro i nostri emigrati, e della segregazione « de facto » dei negri, non erano certamente i valori più evidenti. A questo mito generale, che è alimentato soprattutto da Hollywood, e anche dalla musica, dalle riviste e dai romanzi, Vittorini e Pavese furono molto sensibili. I critici, invece, hanno voluto ignorare questo mito più ampio che rischiava di complicare ed intralciare le loro veloci conclusioni di tipo politico.
La passione per i romanzi americani ci è stata presentata dai critici come un fenomeno esclusivamente italiano, mentre fu un fenomeno diffuso nel resto d'Europa, soprattutto in Francia. Nessun critico, a quanto mi risulta, ha voluto approfondire e trarre le dovute conseguenze dalla genesi particolare della passione americana di questi americanisti-traduttori, che è di natura soprattutto letteraria. È quello invece che io ho cercato di fare nel mio libro. I nostri americanisti ricercarono in America, sì, un'atmosfera di libertà, ma non in termini di libertà di sistema di governo, bensì di libertà creativa e di linguaggio. Essi vennero attratti dalla lingua americana e dalla scrittura, e soprattutto dall'aspetto esotico ed esuberante di una società che appariva giovane, spontanea, mobile, vigorosa, avventurosa, universalistica, e i cui romanzi spezzavano gli schemi letterari abituali e proponevano personaggi ed autori che incarnavano l'antitesi stessa di quel fantomatico personaggio borghese, del quale in Italia gli intellettuali sia fascisti che antifascisti avevano sommo orrore, ma al quale in fondo sapevano di somigliare. L'America apparve loro come il mondo della modernità e dell'esotismo, sorta di schermo magico su cui si poteva proiettare « ad libitum », da lontano, i propri sogni di evasione e di avventura. La letteratura americana fu da loro vista come un modello universale perché emanante da un paese ricco, dinamico, possente.
Nell'esame del mito ci si è voluti basare su certe dichiarazioni dei diretti interessati circa il valore politico della scelta americana, fatte tutte in epoca sospetta cioè quando era conveniente dichiarsi filocomunisti. Si è preferito invece ignorare  quello che Vittorini e Pavese avevano effettivamente detto e scritto durante il ventennio sulla loro passione americana. In tale epoca, infatti, le loro dichiarazioni – come dimostro ampiamente nel libro – erano in aperta contraddizione con la tesi politica che sarà fatta valere in seguito dalla critica.
 
-Ma cosa dicevano Vittorini e Pavese, allora, sull'America?
 Con accenti straordinariamenti simili, dell'America essi esaltavano la potenza e la modernità, vedendola come un Paese che indicava l'inevitabile strada alle  altre nazioni. Insomma ne esaltavano i valori universalistici e direi imperialistici. "Vi è toccato il predominio in questo secolo su tutto il mondo civilizzato, come già accadde alla Grecia, e all'Italia, e alla Francia", inneggia, ammirato, il giovane Cesare Pavese. Vittorini è altrettanto poetico nell'antologia "Americana", in cui esalta la "ferocia" dei pionieri e dei loro discendenti, mentre non dimostra la minima simpatia per coloro che vengono schiacciati dalla ruota del progresso yankee, tra cui gli indiani e i negri.
 
-Ma qual è secondo lei il significato più profondo del mito americano in questi autori?
La radice letteraria del mito dell'America in Pavese e Vittorini, questi intellettuali-traduttori che non misero mai piede negli Stati Uniti, dà una coloritura molto particolare al loro sogno d'oltreoceano. È quello che io cerco di mostrare nel mio libro, del quale però mi riuscirebbe difficile sintetizzare qui le conclusioni. Partendo dai tratti distintivi dei mondi di Pavese e Vittorini, io indico i percorsi ideali che condussero questi scrittori in America. Infatti, nel cuore del mito americano di Vittorini e di Pavese, troviamo i motivi fondamentali della loro vicenda umana ed artistica.
Posso accennare ad un significato sorprendente che l'America ebbe per entrambi: quello di paese sensuale e violento. E da questi caratteri dell’America, veri o presunti che siano, essi si sentirono fortemente attratti. Un capitolo del mio libro è intitolato, appunto: "L'America come sensualità e come violenza". È sorprendente ritrovare, sia nella visione di Pavese sia in quella di Vittorini, la sensualità e la potenza virile associate all'immagine dell'America. Nel libro analizzo questa strana attrazione sensuale con sfumature di sadismo che l’immagine di un’America giovane e violenta esercita su Vittorini e su Pavese, e che finora è stata ignorata dalla critica. Solo qualche tempo fa, nella rivista « Panorama », in un articolo di commento alle poesie segrete di Pavese, finalmente rese pubbliche, ci si dichiarava sorpresi del volto inatteso che emergeva di costui. E si parlava di "delirio d'anima e di sangue", e di "sadismo" dimostrati  da un autore che, secondo l'articolista, andava ripescato dalle nebbie dove era finito. "La storia della vita di Pavese è oggi tutta da riscrivere", ha affermato anche Marziano Guglielminetti, studioso eminente dell'autore piemontese.
Elio Vittorini è un altro autore che andrebbe completamente rivisto, dato che la sua immagine consacrata, a tutto tondo, di personaggio scomodo, ribelle, sempre all'opposizione, anticipatore e quasi profeta, appare in flagrante contraddizione con tutto quanto emerge da una lettura attenta dei suoi scritti e da un esame critico della sua vicenda umana. È quello che io mi accingo a fare in un libro di prossima pubblicazione: rimettere in piedi un autore che una critica compiacente ha capovolto, obbedendo alle accorte direttive dello stesso Vittorini, abilissimo amministratore della propria leggenda.
Il mito dell'America è la cartina di tornasole che rivela il volto più vero di questi autori, sepolto sotto i belletti e le maschere di cui si è servita, per anni, una critica politicizzata ad oltranza per dare o negare titoli di merito letterario, basandosi su giudizi di carattere soprattutto politico. Chi invece non poteva o non voleva vantare meriti politici, come un Giuseppe Tomasi di Lampedusa, schivo gentiluomo siciliano al disopra delle mode e dei conformismi, rischiò di non vedere mai pubblicato il proprio manoscritto, che venne respinto infatti, guarda caso, proprio da Vittorini, perché, nel giudizio di quest’ultimo, si trattava dell’opera di uno scrittore decadente e reazionario.
-Il mito dell’America, che lei esamina in questo libro, appartiene un po’ al passato, visti i grandi cambiamenti intervenuti, dall’epoca di Pavese e Vittorini, in questo Paese...
Il mito dell’America continua ancora oggi, nonostante i tanti cambiamenti avvenuti in questi ultimi anni, e culminati nell’elezione alla presidenza di Barack Obama, un afroamericano. La nomina di Obama non smentisce per nulla, anzi conferma, un elemento primordiale del mito, che è l’idea di un « paese nuovo, terra della libertà, del movimento, della rigenerazione, della mescolanza di razze », per riprendere le parole del mio libro. La « modernità », ovvero la capacità di questo Paese di entrare nel futuro, superando i condizionamenti e le nostalgie del passato, continua ad essere la molla più potente dell’America.

Claudio Antonelli, Pavese, Vittorini e gli americanisti: il mito dell'America, Bagno a Ripoli, Edarc, 2008

   
   
   

 
 

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